IL DISAGIO DELLA CIVILTÀ : il TÉCHNE-HAIKU

Veniamo a contatto con lo haiku conoscendolo come la forma elettiva di scrittura poetica sulla natura, grazie alla sua prerogativa di essere fulmineo, di rispecchiare l’immenso in una scheggia lirica.

Esso si fa altare di bellezza e mistero senza descrivere, ma mostrandone il riverbero genuino, la traccia ottica, olfattiva, acustica e sensoriale in genere, come una scia che procura estasi sul cuore e sulla mente umani.

Il nostro spirito bisognoso di quiete lo avverte subito come un invito tacito ed eloquente a raggiungere uno stato meditativo ed emozionale.

Nel corso del tempo questo contatto con la natura e questa energia vitale captata ed ‘incisa’ nello haiku hanno dovuto sempre più spesso fare i conti con la condizione dell’uomo contemporaneo, a partire dall’industrializzazione e densa urbanizzazione fino alla diffusione dell’inquinamento ambientale e delle tecnologie, incluse quelle digitali.
Questo, fin dal secolo scorso, ha portato l’uomo moderno a vivere quello che lo stesso Sigmund Freud ha identificato come il Disagio della Civiltà (1929).
Freud pone la questione secondo cui, con l’allontanamento da aspetti naturali, selvatici e genuini, si ha come scotto da pagare la progressiva perdita di un numero crescente di gradi di libertà…

Di fatto, in circa novant’anni, le abitudini sono cambiate in modo ancor più radicale, al punto da condizionare e modificare lo stile di vita anche dei più scettici e reticenti.
L’impatto esercitato da un accesso continuo e diretto ai mezzi d’informazione e comunicazione, la pressoché perpetua esposizione a ‘notifiche’ più o meno utili ( il meteo, la politica, la cronaca, la borsa, i social network…) ed in generale a tutti quegli input sensoriali soggetti all’influsso dell’artificio umano, hanno acuito il fenomeno colto da Freud a ridosso della Grande crisi economica.

Per dare una definizione sintetica che racchiuda tutte queste tematiche vorrei ricorrere al termine ‘Téchne’ nella sua accezione etimologica di ‘tecnica in senso di arte’ (senza entrare nei meriti positivi o negativi di tutto ciò), di umano artificio che si declina nella vita quotidiana, producendo variabili sempre più indipendenti anche e soprattutto nel tessuto socio-relazionale, oltre che architettonico ed urbanistico

« Il problema è: non cosa possiamo fare noi con gli strumenti tecnici che abbiamo ideato, ma che cosa la tecnica     può fare di noi. »

(Umberto Galimberti, Psiche e techne: l’uomo nell’età della tecnica)

Rispetto a questo dove si colloca il poeta?…
Come si vanno declinando in questo panorama rivoluzionato, forse anche sconvolto, gli stati d’animo tipici dello haiku?
L’occhio del poeta non può sistematicamente lasciare fuori campo l’elemento di artificio che convive con la natura nei centri urbani dove egli trascorre la sua quotidianità, né più né meno come un fotografo che non può eliminare soggetti ed oggetti indesiderati dalla propria inquadratura; se lo facesse scotomizzerebbe la realtà alienando anche se stesso e i propri vissuti dal suo momento presente.
‘Essere uno con la realtà circostante’ può invero procurargli un wabi intenso, ovvero una tristezza, un moto quasi di depressione unitamente alla meraviglia derivante dal doloroso contrasto della natura con ciò che non lo è….con ciò che la mette in croce, con ciò che però non può ne sa sopraffarla interamente .

Lo haijin si trasforma così in un rabdomante che va a spasso in città e resta folgorato dalla forza stupefacente della natura, dal suo yùgen, anche in mezzo al traffico e ai grattacieli, rintracciandolo nel più piccolo segno di vittoria sulle architetture senza architettura e senza memoria, sulle aree dismesse o pubbliche di verde abbandonato e in degrado, sul milieu acustico del traffico di cui è ogni cosa imbevuta, sullo squillare chiassoso delle luci notturne…
C’è un sentimento di acuta malinconia, talvolta di disagio, ma anche di innominabile pace nel poter, malgrado tutto, sfuggire all’incombente rischio di alienazione …
Il poeta, grazie ai suoi versi che possono oscillare fra lo haiku ed il senryū, è il solo in grado di recuperare il sottile filo lucente che ci collega tutti alla natura e di restituirci al contatto vitale con essa anche se circondati dall’artificio tecnico; l’unico che può riavvicinarci a noi stessi cogliendo il fluire delle quattro stagioni senza rassegnazione, benché tra deserti di asfalto.
Paolo Subioli, in “Zen In The City” solleva, come altri autori statunitensi, il bisogno di sapersi fermare in un mondo che corre: quale occasione migliore di questa?
Vivere il nostro ‘qui ed ora’ senza artifici, pur tra mille artifici, è la sfida del moderno haijin che sa abbracciare il proprio reale senza fuggirne, che può accettarlo pur con sentimenti di inadeguatezza o tristezza, ed anche ironizzarci, in modo più o meno amaro, senza perdere il momento di immersione e comunione con la natura pur nelle sue accezioni più addomesticate.
Qui a seguire una scelta di Téchne-haiku e Téchné-senryū, accostamento dettato dalla scelta di rifarmi al concetto che questo termine, come sopra esposto, può riassumere (seppur in modo incompleto od imperfetto).
Ecco dunque, a titolo esemplificativo, una piccola SILLOGE di haiku nati nella cornice cittadina.
Aggiungerei che in questa chiave, da me non approfondita ma che spero lo sia da parte di altri haijin, il poeta può volersi talvolta confrontare anche con la realtà economica e sociale (comprese le modalità di contatto fra le persone, il loro impiego di internet e delle piattaforme virtuali).

Sfugge a questa categoria solo l’ultimo haiku, nato in un contesto urbano durante una
city-walk, pratica di meditazione attiva che vorrei suggerire a tutti coloro che non sono propensi a meditare in zazen o che vogliano affiancare questa forma da seduti ad una in movimento .

che primavera –
oltre il colle degli aceri
tre ciminiere

a trenta all’ora –
rane di primavera
in contrappunto

spreco energetico –
a mezzogiorno brillano
anche i lampioni

code al semaforo :
piccioni in processione
tubano ai clacson

traffico intenso –
ma piú tenace il canto
delle cicale

una sirena –
sul pavé ticinese
freschi garriti

fari in città –
in selve di cemento
cerco la luna

respiro lento –
ecco la luna piena
in ogni passo

Lucia Fontana

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